sabato 7 settembre 2013

La poltrona vuota

Rimane ancora nel salotto, con sopra il cuscino bianco. Sembra che ti stia aspettando. Sembra che tra pochi minuti entrerai, lentamente, nella stanza, e ti siederai lì. Io ti starò accanto e parleremo. Forse sfoglieremo uno di quei giornali stupidi. Ti sconvolgerai di tutte quelle minigonne e io riderò dicendoti che ormai siamo nel 21. millennio. Non ricorderai chi sono, o forse sì. Ti riempirò di baci e tu mi accarezzerai e vorrai farti accarezzare. Berrai l'acqua, ma solo se sarò io a porti il bicchiere. Poi sarà l'ora di andarmene, dovrò salutarti con quell'angoscia nel cuore, l'angoscia di non sapere se ti vedrò ancora. 
Ma è suonato il telefono. Un soffio di voce, mia madre che piange e dice che non ci sei più. Il dolore, urlo, mi è caduto il mondo addosso. Nessuno lo può capire quel legame, quel filo strettissimo che mi unisce a te dalla nascita. Non è la prima volta che qualcuno se ne va. Dentro il frastuono, fuori è solo silenzio. Mi vesto meravigliandomi di riuscirci e prendo la macchina. Arrivo a casa e sei lì, nel tuo letto. Le vicine ti hanno legato i piedi con un foulard nero. Lo vedo e mi sembra così stonato su quel letto bianco. Sei lì, ma è solo il tuo corpo. Non ce la faccio, vorrei essere gentile e chiedere di lasciarmi un attimo sola con te, invece la mia voce non esce, è così faticoso, diventa quasi un urlo. Ti tocco. Sei fredda e sorridi. Penso ai tuoi occhi neri e vispi. Alle tue battute, alla tua voglia di vivere. Penso a tutto quello che mi hai insegnato e a tutto quello che avrei voluto imparare ancora. Dove sei? Ecco il giorno del funerale. Ti riportiamo a casa, dove c'è tuo marito e il tuo bambino, quel figlio maschio che avevi aspettato tanto e che ti è stato portato via subito. Vedo sistemare la tua bara nel loculo. Per giorni non faccio altro che chiedermi se non abbia freddo anche tu, lì dentro.
Mi manchi ogni giorno, Fatina.